Continuiamo a dedicare la rubrica “Incontri con il vino” ad alcuni confronti con donne e uomini dell’Ho.re.ca che con il vino lavorano con passione e professionalità, offrendo nuovi stimoli al mondo della ristorazione che sta cercando un faticoso rilancio sfidando vecchi modelli. Questo vuol essere un omaggio del mondo del vino al canale distributivo che da più tempo cammina al suo fianco. Stavolta abbiamo avuto una conversazione molto interessante con un capitano di lungo corso, Piero Alciati, regista del ristorante “Guido” della Tenuta di Fontanafredda a Serralunga d’Alba.
Piero Alciati non è un personaggio qualunque. Alto, sempre in forma, capelli pepe e sale alla George Clooney, governa la sala con il suo passo dinoccolato in completo scuro su camicia bianca che ormai si concede il vezzo di portare senza cravatta.
Sembra proprio nato per questo mestiere.
E in effetti in questo mestiere c’è nato. Figlio d’arte di Guido Alciati, patron iconico della ristorazione piemontese e di Lidia, cuoca mitica dal sorriso dolcissimo, come i suoi due fratelli ne ha seguito le orme. Logico, perciò, chiedergli se era una strada obbligata intraprendere la carriera di lavoro di sala.
“No, non era una scelta obbligata e neanche l’unica. Sicuramente tutti noi figli abbiamo iniziato a dare una mano in casa, la sera o nel periodo post-scolastico, quando c’era bisogno. Poi io ho iniziato gli studi ad Alba e quando mi sono diplomato avevo la possibilità di fare l’enologo. Nessuno mi ha detto che non dovevo fare l’enologo, ma io non l’ho neanche mai iniziato a pensare e quindi il 17 luglio del 1982 sono diventato enologo e il 18 avevo già smesso di fare l’enologo. Così ho passato tutta la mia adolescenza a studiare come mettere i tappi alle bottiglie e ho passato tutta la vita a toglierli”.
Che c’è di bello in questo lavoro?
“Questo è un lavoro che ti deve piacere quando lo fai. È il quotidiano che ti dice tutti i giorni che hai voglia di ricominciare a fare le cose che facevi il giorno prima e quindi il tempo ti indica una consapevolezza di cosa stai facendo, cerchi dentro a quello che fai le tue soddisfazioni. Poi aumenti la tua esperienza, le cose difficili diventano facili e le cose che non avevi mai visto alla fine le conosci”.
Ci sembra che in questi anni questo lavoro sia parecchio cambiato. Vediamo molti giovani che non sognano altro che diventare dei divi della tv o del web. Si vede poco il piacere del tuo lavoro che tu dici ti dà la forza per continuare a farlo. La visibilità che hanno avuto certi personaggi è stato un bene o un male?
“Secondo me è stato un bene. Credo che tutte queste nuove figure siano delle opportunità per i giovani di avvicinarsi a un settore, l’enogastronomia, che una volta era solo per guru, per soloni e gli altri erano tutti commis e, diciamo, carne da macello. Quindi quella intraprendenza che vedo nei giovani nell’affrontare questi temi, magari anche, per forza di cose, con un po’ di velocità e superficialità e forse un po’ di leggerezza, alla fine è un bene, è una chiave di futuro, una specie di indirizzo”.
Insomma, secondo te, in questo modo, stiamo agganciando le nuove generazioni al mondo del vino, della gastronomia?
“Secondo me sì. Non dobbiamo pensare, solo perché siamo già passati attraverso, diciamo così, l’uso frequente di bicchieri che siamo gli unici che possono bere. Non è lì il problema. Il problema è un altro, cioè che bisogna riqualificare questo pezzo di mestiere. Perché se no è ovvio uno cerca uno sbocco da un’altra parte o vede un’opportunità in una cosa differente e la prende al volo. Bisogna tornare a fare sembrare, anzi far essere, questo mestiere qualcosa di valore”.
Va bene, ora noi parliamo di professione di sala. Ma di solito i personaggi famosi adesso sono di cucina e in effetti il momento storico ci dice che è difficile trovare delle persone che vogliano fare carriera nella sala: manca la passione, manca la motivazione, forse manca anche qualcosa di remunerazione…Eppure tu sei l’emblema di qualcuno che cammina per la sala con autorità!
“Ma questo non è colpa dei giovani, è colpa nostra che non siamo stati capaci di qualificare quello che facevamo. Evidentemente non siamo stati così abili da farla diventare una professione fondamentale e divertente come lo è per me. Io non faccio fatica a fare questo mestiere, per me è la parte divertente della giornata”.
Fammi capire: come porti avanti il rapporto con il cliente, qual è il tuo schema mentale? Io ti vedo accogliente, per niente formale, ma preciso, attento, quasi rigoroso.
“Il tema è un po’ la forma e l’apparente informalità del servizio. Io credo che conoscenza e informalità siano una chiave del futuro. Questo mestiere, se evolve, evolve in quella direzione: capire e sapere molto bene quello che si sta facendo – e questo vuol dire le materie prime, vuol dire il vino, il territorio, l’accoglienza turistica, vuol dire la predisposizione a servire la gente senza sentirsi un servo – ma poi togliersi i guanti bianchi e tutti i formalismi perché non sono più di questo tempo. Una volta scrivevano le lettere per prenotare, perché non c’erano le mail, chiedendo come dovevano venire vestiti al ristorante, mentre adesso va bene tutto. Ma non è un difetto, è che è un altro tempo e se tu non sei attento o patisci quelle cose lì, ti irrigidisci su delle posizioni vecchie, mentre invece bisogna essere aperti”.
Quindi cosa diresti ai giovani per affrontare questa professione?
Quello che posso dire ai giovani è: approfondite quello che sapete, perché è l’unico modo per tenere la testa alta e avere il rispetto. Nel momento in cui uno si presenta, per quello che è capace a fare, per quello che dice o per quanto è attento alla sua professionalità, lo trasmette immediatamente (quindi la competenza), il cliente se ne accorge in tempo zero e in tempo zero restituisce qualcosa, che è l’attenzione o una domanda (quindi la fiducia). Quando uno che non sai chi è ti chiede come ti chiami vuol dire che l’hai colpito. E questo cambia completamente il rapporto. Non c’è più uno in piedi che porta dei piatti e uno seduto che paga il conto. Diventa una specie di momento di piacere che si prendono tutti e due.
Io la vedo così: a me piace stare al ristorante sia in piedi che seduto. Quindi non faccio fatica. Quando sono in piedi penso a quelli seduti, quando sono seduto penso a quelli in piedi. E questo aiuta a sviluppare una serie di relazioni.
Poi con qualcuno c’è più confidenza, con altri c’è più discrezione. Con qualcuno si parla di stupidaggini, con altri si parla di vini introvabili che si sono bevuti… chi lo sa quando… non c’è uno schema. La strada è il piacere di avere gente seduta a casa propria. E questo cambia le regole del gioco. Questo un po’ è innato, un po’ dipende dal posto in cui si è, da cosa ti permettono di fare, quale tipo di fiducia ti concedono e quanto ti accompagnano nelle scelte; ecco perché dico che qualche colpa ce l’abbiamo noi e non sono solo i giovani che si sono allontanati da questo mestiere.
Che poi è una concausa insieme a stipendi non adeguati, orari assurdi, nessuno che vede un fine settimana, io voglio capire perché si deve fare un lavoro così”.
Cioè, secondo te si potrebbe organizzare anche diversamente e come dovrebbe cambiare?
“Ma è fondamentale, sarà necessario. L’unica strada che vedo è cambiare le regole del gioco. Quello che noi abbiamo nella testa è un modello più sostenibile per noi, umanamente, per fare questo mestiere. C’è un valore che non è nelle buste paga ed è il tempo e quel tempo noi ce lo dobbiamo riprendere, in qualche maniera. Quale? Ci stiamo lavorando.
Magari ci sono persone che vogliono fare turni più corti e altre che preferiscono fare undici ore filate, ma avere due giorni liberi, perché così possono organizzare qualcosa. Magari una buona soluzione è avere una volta al mese venerdì, sabato e domenica liberi, perché così piglio un aereo last minute – perché adesso i giovani fanno così – prendono il telefono e trovano un volo, schiacciano un pulsante e sanno che dopo quattro ore sono a Siviglia.
Vanno là, fanno due giorni di festa, tornano e sono pronti a lavorare. A quella roba lì dobbiamo pensarci: perché loro non possono farlo, perché fanno i camerieri, mentre chiunque altro può farlo?”.
È un’organizzazione del lavoro molto complessa, molto difficile…
“Molto difficile soprattutto rimanendo sostenibile, perché poi bisogna stare in piedi. Bisogna trovare le chiavi per farla stare in piedi. Ci stiamo studiando anche con i ragazzi, perché voglio fare un posto – l’obiettivo è il 2024 –che adesso non c’è e che quando si guarderà quello che stiamo facendo oggi, si vedranno le differenze”.