“Per essere un cittadino del mondo non è necessario averlo davvero girato in lungo e in largo, basta avere le idee chiare, l’occhio che guarda lontano, non essere malati di inutili presunzioni, essere coscienti che in giro c’e gente che sa lavorare quanto e forse meglio di noi, e sapere che viviamo in uno dei posti più belli del mondo, ricco di straordinarie eccellenze, prima fra tutte le terra”.
Mi sembra ancora di vederlo, e sentirlo, in un ormai lontano pomeriggio d’autunno nella sua avveniristica cantina di Monforte, a raccontarsi e ad ascoltare. L’occasione era data da una riunione di Cia Piemonte, la Confederazione italiana agricoltori a cui aveva aderito, lui spirito libero e progressista in un mondo affollato di conservatori, quando ancora si chiamava Confcoltivatori. Si discuteva del presente e del futuro dell’agricoltura, di vino e territorio e lui ogni tanto interveniva per chiarire il suo pensiero di imprenditore di successo che mai e poi mai aveva dimenticato cosa volesse dire essere un viticoltore figlio della terra di Langa pur avendo ormai portato i suoi vini al successo in Europa e anche oltre. Lui era Domenico Clerico, nato nel 1950 a Monforte d’Alba, un paese di poco meno di 2000 anime i cui abitanti pare abbiano nel Dna un inscindibile vincolo sentimentale con i valori del territorio e lui non era sfuggito alla regola anche se dopo la maggiore età, all’epoca fissata a 21 anni, si era dedicato alla commercializzazione di olio piuttosto che di vino che pure il papà Clemente otteneva dalle uve allevate in quattro ettari di vigna a Dolcetto, quasi tutte conferite alla Cantina Terre del Barolo.
Le radici familiari
L’azienda di famiglia era, secondo una tipologia assai diffusa in quegli anni, a conduzione mista – un po’ di frutta, nocciole, uva, qualche bestia nella stalla – e quando Clemente si rese conto di non farcela più, invitò il figlio a prendere il suo posto. Non fu una scelta facile quella che alla fine Domenico operò perché la sua filosofia, di lavoro e di vita, era ben diversa da quella del padre, ma il richiamo della terra fu più forte di tutto. “Caro papà – scrisse in una lettera rimasta famosa perché in poche parole spiegava al genitore quali fossero i suoi intendimenti futuri – e con grande onore che accetto di far proseguire l’azienda che tu hai creato con tanta fatica, ma nel massimo rispetto verso tutto ciò che hai fatto, io voglio proseguire solo facendo vino. Voglio dimostrare a tutti che posso fare grandi vini che la gente apprezzerà, perché la terra in cui viviamo ha un qualcosa di prezioso che ancora non comprendiamo”.
Proprio in quegli anni Domenico aveva sposato Giuliana Viberti che diventò non solo la mamma di Cristina, tragicamente scomparsa a solo nove anni, ma anche l’insostituibile compagna e alleata di tutta la sua lunga corsa alla qualità iniziata nel 1976 e che ancora oggi rappresenta un inalienabile punto di riferimento dell’azienda. Proprio in accordo con lei, Domenico cominciò a vinificare in proprio le uve di Dolcetto, il primo anno addirittura nell’aia di casa, ma privilegio soprattutto il lavoro tra i filari – “si può inventare una cantina, era solito sostenere, ma non una vigna” – nella convinzione che per ottenere vini di qualità si dovesse instaurare con la terra un legame intenso e di scambio continuo per imparare a capire le esigenze della vite in ogni momento dell’anno.
Bene dunque il Dolcetto, ma con tutto il rispetto per questo più che dignitoso vitigno, come si poteva pensare di fare dell’alta qualità senza Nebbiolo e quindi Barolo? E così nel 1977 Clerico comincia a pensare di acquistare nuove vigne, possibilmente tra quelle dei migliori crus di Monforte. Il primo è un piccolo appezzamento alla “Bussia” e di lì verranno i grappoli per il suo primo Barolo, il Briccotto Bussia: poco più di 1500 bottiglie che se ne sparirono in men che non si dica. La strada era dunque segnata e cominciò, nella sua azienda come in molte altre della Langa del Nebbiolo, la “rivoluzione” che avrebbe fatto diventare quelle colline luoghi di buona vita e di buone cose e che vide tra i protagonisti proprio gente come Domenico, generoso e rigoroso, lavoratore instancabile, umile ed orgoglioso allo stesso tempo, capace di affrontare, quasi sempre vincendole, le sfide dei mercati internazionali facendo valere come segno distintivo del proprio essere la qualità del prodotto, piuttosto che quella di un appropriato linguaggio “foresto”.
La ricerca spasmodica della qualità
Ma, come si sa, la strada della qualità non è fatta solo dalla bontà della materia prima, ma anche dalla capacità di innovarsi, interpretare la tradizione secondo criteri non retorici o di moda, scegliere le posizioni migliori e le altitudini più adeguate alle necessità della pianta. Insomma, il Vangelo secondo Domenico, “l’innovazione non è altro che una tradizione ben riuscita”. E così, in qualche modo anche illuminato dagli incitamenti di Angelo Gaja, il “faro” di quegli anni che stava facendo grandi cose sulla destra Tanaro con l’altro Nebbiolo, il Barbaresco, Clerico esercita la sua intelligenza nel fare cose nuove in vigneto e in cantina, prima fra tutte l’allora quasi sconosciuto e sovente avversato diradamento che effettuò la prima volta di nascosto al padre Clemente, approfittando di una sua assenza di qualche giorno perchè in gita a Lourdes nell’annuale pellegrinaggio organizzato dal parroco del paese. “In quegli otto giorni – ricordava con una sottile vena di umorismo – insieme a Giuliana davamo una sistemata alla vite, tagliavamo i grappoli in eccesso e li interravamo subito perché papa non se ne accorgesse”. La qualità ne guadagnò e lo stesso Clemente fu costretto ad ammettere che il miglioramento era stato evidente.
Per il resto nessuna forzatura produttiva, un uso ragionevole del legno ma senza dogmi perché “credo che la differenza fra ‘modernisti’ e ‘tradizionalisti’ non abbia alcuna ragione di esistere: per fare un grande vino e giusto che ciascun produttore ne rispetti la propria personale interpretazione”.
Il successo a colpi di Barolo
La gamma dei Baroli era inevitabilmente destinata ad ampliarsi e così nel 1982 si aggiunse il cru Ginestra da cui il “Ciabot Mentin” in ricordo del padre Clemente, nel 1990 il “Pajana” dall’omonimo cru e nel 1995 il “Percristina” dal cru Mosconi, dedicato alla figlia scomparsa e probabilmente il più complesso perché figlio di vigneti molto vecchi. Infine, mentre buona attenzione veniva riservata anche al Dolcetto (“Visadì”), alla Barbera (Trevigne), al Langhe Nebbiolo (Capisme) e al Langhe Rosso (Arte), nel 2005 arrivava il primo Barolo da Nebbiolo non di Monforte, ma di Serralunga d’Alba. Il suo curioso nome, “Aeroplanservaj” (aeroplano selvaggio) faceva ancora una volta parte della storia personale di Domenico, perché così lo aveva soprannominato Clemente quando lo vedeva “volare” con la fantasia sulle colline per poi atterrare nel mondo reale.
Premi e riconoscimenti internazionali, partecipazione alle più importanti fiere vinicole del mondo, esportazioni in più di 40 Paesi, un prestigio inattaccabile non avevano minimamente intaccato la sobrietà di vita che era la sua cifra identitaria, nel cui quadro mancava però ancora un tassello: una rivoluzionaria cantina di vinificazione, in acciaio, vetro e cemento realizzata dallo studio Bonizzoli, Chiabrando, Ferrara e Roccia e inaugurata nel 2011. Un edificio assolutamente fuori dai canoni costruttivi del territorio dell’epoca che presentava anche in questo caso innovazioni strutturali di grande rilievo e che, va detto, non aveva mancato di suscitare, insieme a diverse considerazioni di apprezzamento, non pochi giudizi piuttosto duri a cui Domenico rispose secco: “Bisogna sempre guardare avanti, perché quello che è vecchio e già di ieri”.
Domenico Clerico è morto a causa di un tumore nel luglio del 2017, lasciando la moglie Giuliana, la sorella Laura e due nipoti che hanno continuato ad occuparsi dell’azienda, oggi “ricca” di circa 22 ettari di vigneti di pregio. Il suo ultimo sogno è stato quello di produrre un vino da uve nebbiolo di una vecchissima vigna di Barolo, lasciandolo affinare senza passaggio in legno. I suoi eredi lo hanno realizzato dando al Langhe che ne è derivato il nome di “Perdomenico” e destinando i ricavi che ne sono risultati esclusivamente a opere di beneficenza.