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La faccia tosta del Greenwashing

Il "greenwashing" è l'uso ingannevole di pratiche ecologiche per creare un'immagine sostenibile senza azioni concrete.

Giancarlo Montaldo
La faccia tosta del Greenwashing

Ci sono parole come “sostenibile”, “verde”, “green”, “riciclabile”, ecocompatibile” ecc. che ultimamente ricorrono sempre più frequentemente nella pubblicità e nella comunicazione aziendale, pur senza essere riferiti a prodotti o situazioni che contemplino davvero il carattere positivo che vogliono divulgare.
Di questa situazione tanti si stanno rendendo conto e molti tendono a guardare con sospetto certe espressioni comunicative. Ma non sempre ne conoscono le dinamiche. Non sanno, per esempio, che la società nel suo complesso sta già cercando di correre ai ripari catalogando questo modo di agire con un nuovo neologismo di stampo inglese. In gergo tecnico si dice “greenwashing” ed è il frutto dell’unione tra il termine “green” (verde come colore che identifica l’atteggiamento ecologico) e “washing” che di primo acchito si potrebbe tradurre in “lavare”, ma che richiama un altro verbo, il “to whitewash”, facilmente traducibile con “imbiancare” e che per estensione può assumere anche il significato di “coprire o nascondere”. Per analogia, quindi, il significato di “greenwashing” diventa molto più esteso e può essere interpretato come “ecologismo di facciata” o come il “darsi una patina di sostenibilità” quando invece la realtà è tutta un’altra.

Che bisogno c’è di un ecologismo di facciata?

Volendo essere ancora più espliciti, in comunicazione e pubblicità il termine “greenwashing” è riferito alla strategia attuata da certi produttori, in genere di grande dimensione ma senza escludere anche realtà più piccole, imprese e organizzazioni per crearsi un’identità falsamente o solo virtualmente positiva in fatto di sostenibilità, impatto ambientale ecc. anche se nella realtà non hanno fatto tutto ciò che sarebbe stato necessario per essere tali.
A quanto pare, tale neologismo è stato introdotto per la prima volta nel 1986 dall’ambientalista americano Jay Westerveld, che lo usò allora per censurare il comportamento di alcune catene alberghiere che facevano leva sulla sensibilità ambientale dei loro ospiti per contenere il lavaggio degli asciugamani quando invece l’obiettivo era soprattutto il risparmio economico. È il caso in Italia di una grande azienda di acque minerali che per questo atteggiamento è stata sanzionata.
Ciascuno si potrebbe chiedere perché ci sia bisogno di darsi una “patina di ecologismo” se nella realtà non si è fatto nulla per guadagnarsela. È come chiedersi perché c’è la frode in commercio… Comunque c’è soprattutto una ragione e deriva dalla particolare sensibilità che l’opinione pubblica manifesta sempre di più nei confronti di un impatto ambientale attento e responsabile. Nella realtà, perciò, quando non ci sono i presupposti necessari, quella del “greenwashing” è paragonabile a un’appropriazione indebita di virtù e qualità ecosensibili, che sfrutta la buona fede del consumatore per far passare di sé e dei propri prodotti un’immagine ambientalmente non rispondente.
Al riguardo, non bisogna confondere il greenmarketing e il greenwashing: le aziende che adottano il greenmarketing forniscono le indicazioni utili a verificare l’effettivo impatto ambientale dei loro prodotti (ad esempio pubblicando sul proprio sito le informazioni specifiche) e dedicano molta attenzione al ciclo di vita delle loro produzioni, ai meccanismi produttivi, agli imballaggi, alle emissioni e alla comunicazione. Quelle, invece, che si affidano al greenwashing tramite la loro comunicazione tendono a esaltare in modo esagerato l’impegno profuso nel ridurre l’impatto ambientale dei loro prodotti, senza però fornire elementi concreti per consentire agli interlocutori le verifiche e i riscontri del caso.

greenwashing

Le verifiche istituzionali e pubbliche

Se le pratiche del greenwashing risultano così facili e percorribili, molto dipende anche dal ruolo dell’ente pubblico che in molti paesi europei ed extraeuropei risulta tuttora non solo poco efficace, ma anche poco esercitato. In Italia, in modo partico lare, non esiste una normativa mirata a tenere a bada questi fenomeni, probabilmente perché il fenomeno agli occhi del legislatore non ha ancora raggiunto dimensioni problematiche.
Va detto però che un intervento di base è già stato attivato da parte dello stato italiano, nel senso che per ora si fa riferimento alla normativa in vigore sulla pubblicità ingannevole per tenere a bada questo fenomeno che – se trascurato – rischierebbe di assumere proporzioni critiche.
Al riguardo, sono previsti due tipi di intervento: da un lato quello dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), che ha la competenza di verificare se una pubblicità sia ingannevole o meno; dall’altro, l’Autorità per le Garanzie della Comunicazione (AGCOM), che ha due tipi di funzioni: salvaguardare la corretta competizione tra gli operatori di mercato e tutelare il diritto dei consumatori a un’informazione veritiera e documentabile.
Importante è il testo dell’art. 2 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale riferito alla “pubblicità ingannevole”: “la pubblicità deve evitare ogni dichiarazione o rappresentazione che sia tale da indurre in errore i consumatori, anche per mezzo di omissioni, ambiguità o esagerazioni…”.
La pratica del greenwashing rientra a buon titolo proprio in questi ambiti normativi e operativi. Quando viene evidenziata una violazione al Codice, il Comitato di Controllo può intervenire, da un lato per sollecitare l’impresa a correggere la sua comunicazione commerciale oppure – nelle situazioni più gravi – può intraprendere un provvedimento specifico, che può anche portare allo svolgimento di una causa penale.
Sul sito dell’Agenzia del Garante della Concorrenza e del Mercato c’è uno spazio a disposizione di consumatori e delle loro rappresentanze per le segnalazioni del caso. Uno spazio che negli ultimi tempi è molto frequentato e utilizzato. I furbetti del greenwashing sono avvertiti.

Questo articolo si trova nel secondo numero di Barolo & Co. pubblicato il 21 giugno 2022.

Articolo scritto da Giancarlo Montaldo
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